[…] Ma io appartengo solo al mio tormento / e alle ragioni smisurate / del mio sogno. Io che son Io / in questo infinito / perché il rosario delle mie azioni / si disciolga ed abbia compimento. / O abbiate pietà di me / che combatto per un’incognita terra / per uno sconosciuto nome.
(versi tratti dalla poesia Calais in Poesie)
Poesie di Maria Pulito, pubblicato per edizioni Schwarz nel 1954, rappresenta per il collettivo un esempio di poesia singolare e misteriosa, che traccia un sentiero di memoria unicamente attraverso le parole. Di fatti, nulla si conosce della vita dell’autrice – se non l’esistenza di una raccolta postuma a quella qui presentata, chiamata Telete, edita da Guanda e datata 1961.
La raccolta, scelta da Anna Rita al mercatino dei libri usati di San Lorenzo a Roma, si compone di tre sezioni e due illustrazioni del pittore e scultore Aligi Sassu.
La prima sezione ci mostra una poetica più materica e fisica – si intitola Viaggi e ci porta in una dimensione naturale, in cui la descrizione del reale diventa un susseguirsi di intrecci tra visioni serafiche ed elementi naturali. Solo cinque poesie articolano la mappatura di questo viaggio, presumibilmente svolto in solitudine, tra Francia e Inghilterra. La tensione al desiderio diventa riconoscenza dell’altrove: spostamento e scoperta di nuovi luoghi enfatizzano la ricerca costante d’impiccare ad uno ad uno dei lampioni / i fantasmi senza corpo aggrappati / alla mia ombra. (da Calais).
HYDE PARK
La tempesta come un uccello nel suo nido
cova tra i ventagli degli alberi
e a balzi, come una palla tenuta nelle mani
di un bimbo, il sole salta nei prati.
O, prati del mio desiderio!
Uomini e donne per metà nudi
assaporano l’erba profumata
e calpestata, e la Serpentine
in un si e no di abbandono gioca
la sua parte di azzurro
mentre le nuvole cavalcano sul suo dorso
con preistorico impeto
di centauri. In tutte le parti del mondo
l’uovo astrale della mia solitudine
scintilla nel suo guscio fermo
ed intatto. Solitudine, poema in crisi
sinfonica del mio viaggio umano
condannato e punito a rompersi alle porte
stridenti dell’Ade.
Solitudine nel connubio incestuoso
dei sentimenti tesi come arco d’argento
nel traffico urbano
della concupiscenza che lambe ma che non ha
la forza di toccare. Solitudine, freccia di una traiettoria
luminosa che non ha meta.
Il peccato originale splende sul mio banchetto
umano come una stella con la sua lunga
coda di sventura,
e il si e il no della Serpentine sperpera
i miei pensieri nell’abbandono del canto.
La seconda sezione si intitola semplicemente Amore: è la più densa, con poesie che detergono le ombre del desiderio, esaltando all’unisono sentimento puro e tensione al contatto (quasi erotico) con il mondo fisico, dal bacio alla danza dell’amore di due corpi vicini, fino al desiderio di farsi terra. La beautitudine accompagna questo sogno d’amore che è mattino e risveglio, diventando espediente di necessità e vicinanza al divino.
Diciotto Canti d’Amore intermezzano la sezione e assistiamo all’invocazione di un amore sincero, fatto di lealtà immateriale e del sospiro dello spirito – suo, dell’altro, nostro e accomunato da un Egli che ritorna, canta, protegge, sa. L’amore è un impeto del desiderio in giovinezza, è un’esperienza nuova che spaventa, l’ascolto di pulsioni che rimangono sospese ma che celano i segreti dell’altrui anima – riappropriandosi della visione della propria. Anima e animus si ritrovano: come fiamme gemelle che si compenetrano per ritrovarsi Uno.
I
Tu hai umiliato l’anima mia
dandomi la vita. Perché hai ridestato
dal sonno potente il mio spirito
e l’hai fatto nascere nella moltitudine?
[…]
VIII
L’anima mia è colpita dai sette demoni,
il mio desiderio, più profondo della morte,
è amaro come un letto di alghe.
Sorgi dal tuo silenzio
e cessa di tremare o mio amato, la tua carne è come l’incenso
nelle coppe di argento,
la tua anima come la fiamma
è penetrata nelle porte segrete della mia casa.
Sorgi dal tuo silenzio
e cessa di tremare o mio amato
sii a me dolce come la palma
nella carezza di zefiro
e la tua anima sia come una corda di lira
toccata nel velluto della melodia.
X
Per le sacre ombre della notte
dimmi dove sei tu andata, anima mia?
Chi ti rapì? Mercurio ti ha guidata
alla lunga dimora dei morti
o presso le sacre fanciulle di Eros
canti e intrecci ghirlande?
Certo, ella è lì oltre l’oceano
dalle grandi onde, che naviga
la farfalla, la perduta d’amore.
XIII
Il mio corpo si consumerà
fino alla morte
e la mia anima progredirà
fino al non essere.
Il male della mia vita si muterà in te
ed io sarò come l’albero
che butta tutti i suoi frutti sulla terra.
XVII
Io ti bacerò e mi allontanerò da te
per sprofondare i miei occhi nei tuoi occhi
io ti bacerò e mi allontanerò da te
per contemplare lo splendore del tuo volto.
Come nel cuore delle selve nel murmure
di Borea, saliranno i brividi
sul mio corpo e riuniranno in complessità
gli infiniti di tutti i miei desideri.
Tu mi porterai nel regno delle possibilità
e impossibilità dove regna
la luna e i raggi
delle bianche strade,
nelle eterne cogitazioni della notte.
La sezione conclusiva si intitola Io e il mio Dio e si compone di un breve poemetto intitolato Giona e di tredici poesie. È la purificazione dei sensi a tener salda l’opera: l’ombra è accettata e governata, diventando sedimento d’amore rinato e restituito al divino. Il mostro è nella forma (umana) e la solitudine l’unico bagliore per vederla e trapassarla.
[…]
Io Giona il dissidente
l’apostolo di un mito
che non ha ritorno, io piango
l’anima mia data ad una belva
perché la creazione fosse esemplare
nel suo nodo di tragedia e di abbandono.
E respirai attraverso le narici
del mostro la salsedine
dei poli, e nella sua interna solitudine
la mia solitudine si formò
sferica ed eterna come il pitone
che sale negli anelli del tempo
fino a Dio.
E l’odio e l’amore in me stesso
eran le umide sirene di smeraldo
e le forme degli uomini
eran incubi di alghe e il bacio
delle donne l’alito di marine correnti,
e l’impeto del sogno era lo strazio
di paludi nero azzurre, senza fondo.
Nessuno può reggere
tanta angoscia.
Uccidere il mostro o far strage
della sua forza? Il sangue
arricchirebbe di purpureo rosso
le vene degli oceani.
Ma Dio non crollerebbe dal suo trono?
E allora andare, andare!
È questo il tuo viaggio Giona,
questa è la morte che tu vivi,
il trauma della vita
che tu, o lunare apostolo,
provi nel tuo essere fatto uomo.
IV
E qual è il mio Dio? Perché io non posso
pensare che tu facesti un’opera
così piena di peccato per il tuo godimento.
Tu mi onori come il tuo avversario
e dalla porta del cielo lasciasti passare
la morte e la piantasti nel mio cuore
come il contadino che batte la terra
e la tortura quando il freddo novembre
s’avvicina. Ma ecco, io mi abbandono
sulla terra e l’anima piange un amaro pianto.
XI
Nella notte io numero le tue opere
sulla cima del mio tetto, in mezzo ai quattro orizzonti
poche sono le stelle, ma la luna rotonda
empie d’acqua azzurra la terra,
e gli infiniti alberi riposano nella divina luce.
Gli altipiani lontani sono come
dolci vene di un bimbo, azzurre e calme.
Ma il mio occhio come vento è penetrato nell’anima mia,
il mio occhio come vento devasta l’anima mia.
Le poesie di Maria Pulito sono un bagno devastante in un processo di ascesi verso la serenità. Rappresentano il far pace con il benigno corpo, in solitudine con l’anima che si prostra in adorazione al significare più che al significato.
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