Questa raccolta, scelta da Eleonora, è una testimonianza dell’umanità, vista nella sua valenza di complessità e dei limiti che allo stesso tempo in essa sono racchiusi.
Bisogna dichiararlo subito: Caterina sono io, Caterina siamo tutti noi.
Caterina è un suono, è un nome, è una donna che di mestiere fa la donna delle pulizie ai piani di un grande albergo veneziano.
La sua prospettiva è multipla, e va dal grande al piccolo: Caterina, che è viva come non mai nei versi di Andrea Longega, si muove nelle stanze dell’albergo, in giro per la città, osserva, riflette sul mondo intorno a lei, partendo da un dettaglio minimo, dal luccichìo dell’acqua sul Canal Grande o da un abito, da chi scende la mattina presto dal treno, dalla fontanella nel campiello.
Ci regala i suoi pensieri, la sua grande ironia, la sua leggerezza, la sua immaginazione:
ʼPena entrada lo go visto subito
abandonà sul divanéto –
me so fata coragio e lo go stréto
un fià tra le man – da tanto
lezièro el me xe sbrissà
el me xe sbrissà via…
La vedo ieri sera su qualche terassa
la nòte dei fòghi del Redentor
co indosso sta séda
sta gran maravégia…
Signore beate, fortunàe
che ga vestiti beli
come le gole dei colombi
e le cóe dei cardelini.
Appena entrata l’ho visto subito / abbandonato sul divanetto – / mi sono fatta coraggio e l’ho stretto / un po’ tra le mani – era così / leggero che mi è scivolato / mi è scivolato via… / La vedo ieri sera su qualche terrazza / la notte dei fuochi del Redentore / con addosso questa seta / questa grande meraviglia… / Signore beate, fortunate / che hanno vestiti belli / come le gole dei colombi / e le code dei cardellini.
Caterina tocca un abito abbandonato sul divano di una camera, e dipinge nella sua e nella nostra immaginazione la scena di un gruppo di signore elegantemente vestite che si godono lo spettacolo pirotecnico della festa del Redentore, paragona gli abiti leggeri alle gole dei colombi e alle code dei cardellini, le riporta nel mondo che conosce, ma vela anche le contraddizioni quando una cliente tentenna e non sa come lasciarle la mancia, quasi di nascosto; questa scena silenziosa è tra quelle che compongono questa raccolta poetica, che è anche una storia e una riflessione sul tempo che passa.
Caterina ci racconta che le ragazze nuove e giovani che arrivano a lavorare, non durano nemmeno un giorno, con le loro unghie perfette; ci conduce su un’altana al mattino presto, dove lei e la sua collega Bianca in silenzio riflettono ciascuna sul tempo che passa e passa anche sul proprio corpo (e ci sembra già di conoscerla da sempre, di aver fumato mille sigarette anche insieme a lei e a Bianca):
(…)
Co gèra i primi ani e fumàvimo
nel stazìn de le scóe
mi e la Binaca fassévimo
tuto un ciacolàr – chi lo sa
sarà stada l’età.
Desso, qua ferme su l’altana
de matina bonóra no disémo
che meza parola, fumémo
vardando in là,
col brasso pusà sul legno
e ‘l peso grando de ste téte
che ormai no ne serve più a niente.
(…) I primi anni quando fumavamo / nel ripostiglio delle scope / io e Bianca non smettevamo mai / di chiacchierare – chi lo sa / sarà stata l’età. / Adesso qua ferme sull’altana / di mattina presto non diciamo / che mezza parola, fumiamo / guardando più in là, / col braccio appoggiato al parapetto / e il peso grande di queste tette / che ormai non ci servono più a niente.
Caterina ci racconta la Venezia di ieri e di oggi, chi ci vive e chi ci passa, indovina chi ha dormito da solo e in quale letto si è consumato un amplesso, che le contesse sono donne uguali alle altre che lavano da sole la biancheria nel lavandino del bagno, ci dice che i pavimenti appena lavati non si asciugano quando c’è la nebbia, ci dice la fatica della vita e quella fatica ce la fa vedere quando lucida i pomelli di ottone col Sidol.
I lustro mi i pomèli de otón
i lustro col Sidol
me taco sul pato e russo
finché go forsa – e co finisso
da da basso vardo in su
tute le rampe tonde de le scale
su su fin a ‘l ultimo pian
che me gira parfin la testa –
i brila come tante stéle
i pomèli de otón – e so stada mi
a farli blilar…
che gran zavàgio, la vita.
Lucido io i pomelli di ottone / li lucido col Sidol / mi stringo al corrimano e strofino / finché ho forza – e quando finisco / da giù guardo in su / tutte le rampe circolari di scale / su su fino all’ultimo piano / che mi gira persino la testa - / brillano come tante stelle / i pomelli di ottone – e sono stata io / a farli brillare… // che gran fatica, la vita.
Nella poesia di Andrea Longega, nel suo regalarci Caterina troviamo una verso liquido e sfumato, l’ironia, la leggerezza e l’eleganza che si esprimono attraverso la lingua veneziana.
Nella prefazione a questo libro, firmata da Edoardo Zuccato, si parla di levità, ma in questa recensione voglio continuare a definirla leggerezza, della poesia e della voce che impariamo a incontrare questi testi. La leggerezza è il contrario della pesantezza, ma questo non vuol dire che non si sia soppesata la gran fatica della vita di cui ci parla Caterina: la leggerezza è propria di chi ha visto tutto, ci ha pensato a sufficienza, prende coraggio e sceglie la propria lingua poetica, la propria lingua d’acqua e di vita per presentarci ciò che importa davvero, per condurci all’incontro con la parola poetica senza farlo pesare troppo al lettore.
Ogni pagina canta, ogni poesia potrebbe essere letta da sola ed essere un microcosmo compiuto, una tessera di un mosaico che man mano si compone e ci regala una storia, una vita e la costellazione di vite, straordinarie nel loro essere ordinarie, che ci girano attorno.
Andrea Longega ci regala un personaggio, una storia e il tempo che la attraversa, insieme al tempo della città di Venezia; ci regala la dignità del lavoro e della stanchezza che contrappone lo sguardo allo sfarzo della città-cartolina e dei suoi turisti, ma allarga l’orizzonte fino al tempo che passa e al mondo che cambia intorno a noi.
Vale la pena scriverlo ancora: Caterina sono io, Caterina siamo tutti noi, grazie alla poesia di Andrea Longega.
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