Oh! questa vita sterile, di sogno!
Meglio la vita ruvida concreta
del buon mercante inteso alla moneta,
meglio andare sferzati dal bisogno,
ma vivere di vita! Io mi vergogno,
sì, mi vergogno d’essere un poeta!


I Colloqui (Treves, 1911; Garzanti, 1956; InternoPoesia, 2020; ecc.) rappresenta per il collettivo un libro di grazia e rinuncia, attraversato da una voce che racconta senza voler convincere.
Ci si affeziona subito a Guido Gozzano. A questa sua voce malinconica e bassa, che preferisce le buone cose di pessimo gusto agli slanci di un’epoca stanca. I Colloqui – pubblicato nel 1911, ma composto nei sei anni precedenti – è un libro che sembra scritto da qualcuno che ci conosce troppo bene i nostri piccoli vizi, i rimpianti borghesi, le felicità modeste. 

Scelto da Sabrina, questo libro è di fatto un dono. Gozzano ci parla da una soglia: tra salute e malattia (la tubercolosi lo ucciderà nel 1916, a soli trentadue anni), tra ironia e struggimento, tra poesia alta e prosa domestica. I tre momenti che compongono la raccolta – Il giovenile errore, Alle soglie, Il reduce – disegnano un arco che sa di sconfitta lucida, ma mai amara.
Proprio nella poesia che dà il nome alla seconda sezione, Gozzano scrive:

I.

Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto,
mio cuore, bambino che è tanto felice d’esistere al mondo, 

pur chiuso nella tua nicchia, ti pare sentire di fuori
sovente qualcuno che picchia, che picchia.... Sono i dottori. 

Mi picchiano in vario lor metro spiando non so quali segni,
m’auscultano con li ordegni il petto davanti e di dietro.

E senton chi sa quali tarli i vecchi saputi.... A che scopo?
Sorriderei quasi, se dopo non bisognasse pagarli....

«Appena un lieve sussurro all’apice.... qui.... la clavicola....»
E con la matita ridicola disegnano un circolo azzurro.

«Nutrirsi.... non fare più versi... nessuna notte più insonne....
non più sigarette.... non donne.... tentare bei cieli più tersi:

Nervi.... Rapallo.... San Remo.... cacciare la malinconia;
e se permette faremo qualche radioscopia....»

II. 

O cuore non forse che avvisi solcarti, con grande paura,
la casa ben chiusa ed oscura, di gelidi raggi improvvisi?

Un fluido investe il torace, frugando il men peggio e il peggiore,
trascorre, e senza dolore disegna su sfondo di brace

e l’ossa e gli organi grami, al modo che un lampo nel fosco
disegna il profilo d’un bosco, coi minimi intrichi dei rami.

E vedon chi sa quali tarli i vecchi saputi.... A che scopo?
Sorriderei quasi, se dopo non fosse mestieri pagarli.

III.

Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto,
mio cuore, bambino che è tanto felice d’esistere al mondo,

mio cuore dubito forte - ma per te solo m’accora -
che venga quella Signora dall’uomo detta la Morte.

(Dall’uomo: chè l’acqua la pietra l’erba l’insetto l’aedo
le danno un nome, che, credo, esprima una cosa non tetra)

È una Signora vestita di nulla e che non ha forma.
Protende su tutto le dita, e tutto che tocca trasforma.

Tu senti un benessere come un incubo senza dolori;
ti svegli mutato di fuori, nel volto nel pelo nel nome. 

Ti svegli dagl’incubi innocui, diverso ti senti, lontano;
nè più ti ricordi i colloqui tenuti con guidogozzano.

Or taci nel petto corroso, mio cuore! Io resto al supplizio,
sereno come uno sposo e placido come un novizio.

Guido è spesso inetto, goffo, tenero. Ama, ma non sa dichiararsi; viaggia, ma senza convinzione; scrive, ma prende le distanze dal proprio ruolo. È un uomo che vive per interposto ricordo, sempre un po’ di lato alla vita.
In Cocotte:

(...)

Il mio sogno è nutrito d’abbandono,
di rimpianto. Non amo che le rose
che non colsi. Non amo che le cose
che potevano essere e non sono
state.... Vedo la casa, ecco le rose
del bel giardino di vent’anni or sono!

(...)

Eppure è proprio in questa marginalità che la poesia diventa profonda. Quando racconta l’infanzia, le zie, i salotti polverosi, gli amori mancati, Gozzano riesce a dire qualcosa che ci riguarda ancora: che la felicità è spesso nelle cose più dimesse, e che la poesia può trovarsi in una vecchia tappezzeria quanto in un tramonto.
Scrive, infatti, in La signorina Felicita ovvero La Felicità:

(...)

Penso l’arredo - che malinconia! -
penso l’arredo squallido e severo,
antico e nuovo: la pirografia
sui divani corinzi dell’Impero,
la cartolina della Bella Otero
alle specchiere.... Che malinconia!

Antica suppellettile forbita!
Armadi immensi pieni di lenzuola
che tu rammendi pazïente.... Avita
semplicità che l’anima consola,
semplicità dove tu vivi sola
con tuo padre la tua semplice vita!

(...)

M’era più dolce starmene in cucina
tra le stoviglie a vividi colori:
tu tacevi, tacevo, Signorina:
godevo quel silenzio e quegli odori
tanto tanto per me consolatori,
di basilico d’aglio di cedrina....

Maddalena con sordo brontolio
disponeva gli arredi ben detersi,
rigovernava lentamente ed io,
già smarrito nei sogni più diversi,
accordavo le sillabe dei versi
sul ritmo eguale dell’acciottolio.

(...)

Intorno a quella che rideva illusa
nel ricco peplo, e che morì di fame,
v’era una stirpe logora e confusa:
topaie, materassi, vasellame,
lucerne, ceste, mobili: ciarpame
reietto, così caro alla mia Musa!

(...)




Leggendolo oggi, Gozzano ci interroga sul ruolo del poeta in tempi in cui non c’è più spazio per la grandezza. Guido non urla, non fiammeggia. Ma proprio in questa voce bassa, in questa scelta di cantare ciò che è piccolo e privato, I Colloqui apre uno spazio nuovo: quello della sincerità ironica, dell’elegia quotidiana, del disincanto che non si è ancora trasformato in cinismo. Come in Pioggia d’agosto:

(...)

Soffro la pena di colui che sa
la sua tristezza vana e senza mete;
l’acqua tessuta dall’immensità
chiude il mio sogno come in una rete,
e non so quali voci esili inquete
sorgano dalla mia perplessità.

(...)

È difficile dire quale poesia resti più impressa. La signorina Felicita, vista precedentemente, è il racconto – in versi – di un amore non vissuto. O vissuto nella mente, con l’intensità mite dei sogni quotidiani.

(...)

Sei quasi brutta, priva di lusinga
nelle tue vesti quasi campagnole,
ma la tua faccia buona e casalinga,
ma i bei capelli di color di sole,
attorti in minutissime trecciuole,
ti fanno un tipo di beltà fiamminga....

E rivedo la tua bocca vermiglia
così larga nel ridere e nel bere,
e il volto quadro, senza sopracciglia,
tutto sparso d’efelidi leggiere
e gli occhi fermi, l’iridi sincere
azzurre d’un azzurro di stoviglia....

Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
rideva una blandizie femminina.
Tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina:
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

(...)

Splende anche L’amica di nonna Speranza, con la sua tenerezza sghemba, con la sua nostalgia da romanzo fotografico:

(...)

Carlotta! nome non fine, ma dolce che come l’essenze
resusciti le diligenze, lo scialle, la crinoline....

Amica di Nonna, conosco le aiole per ove leggesti
i casi di Jacopo mesti nel tenero libro del Foscolo.

Ti fisso nell’albo con tanta tristezza, ov’è di tuo pugno
la data: ventotto di giugno del mille ottocentocinquanta.

Stai come rapita in un cantico: lo sguardo al cielo profondo
e l’indice al labbro, secondo l’atteggiamento romantico.

Quel giorno - malinconia - vestivi un abito rosa,
per farti - novissima cosa! - ritrarre in fotografia....

Ma te non rivedo nel fiore, amica di Nonna! Ove sei
o sola che, forse, potrei amare, amare d’amore?

Poi c'è Totò Merùmeni, che è quasi un autoritratto mascherato:

(...)

IV.

Totò non può sentire. Un lento male indomo
inaridì le fonti prime del sentimento;
l’analisi e il sofisma fecero di quest’uomo
ciò che le fiamme fanno d’un edificio al vento.

Ma come le ruine che già seppero il fuoco
esprimono i giaggioli dai bei vividi fiori,
quell’anima riarsa esprime a poco a poco
una fiorita d’esili versi consolatori....

V.

Così Totò Merùmeni, dopo tristi vicende,
quasi è felice. Alterna l’indagine e la rima.
Chiuso in sè stesso, medita, s’accresce, esplora, intende
la vita dello Spirito che non intese prima.

Perchè la voce è poca, e l’arte prediletta
immensa, perchè il Tempo - mentre ch’io parlo! - va,
Totò opra in disparte, sorride, e meglio aspetta.
E vive. Un giorno è nato. Un giorno morirà.

Ma è l’insieme del libro che colpisce: una sinfonia di voci che parlano piano, e proprio per questo ci restano dentro. Soffiano addosso come le frasi dette sottovoce da qualcuno che non si vuole esporre, ma che ama profondamente.
In un’epoca che ci vuole performanti, potenti, desiderabili, Gozzano ci ricorda la bellezza di essere inadeguati. E ci dice, con garbo, che anche l’infelicità può avere una sua grazia – se la si sa raccontare con dolcezza.


Non vivo. Solo, gelido, in disparte, sorrido e guardo vivere me stesso.





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