I fiori di tarassaco sulle rotaie
annunciano il disfacimento.
Questo è il cifrario di dio:
una giostra di tagliola e vento.





Dialoghi con Amin, pubblicato da Crocetti Editore nel 2022 con una prefazione di Milo De Angelis, è un libro di poesia breve nella misura, ma sorprendentemente denso nella materia. Il libro, scelto da Sabrina, rappresenta per il collettivo quella soglia che interroga l’origine per parlare al presente.

Ibello lo concepisce come un poema in quattro movimenti – Yucatan, Teorema dei roghi, Be aware of God, Luce cariata dell’avvenire – che si susseguono come tappe di un unico attraversamento. La struttura è compatta e rigorosa, ma non rigida: le sezioni sono diverse per tono e atmosfera, eppure conservano un respiro unitario.

Il titolo introduce immediatamente un mistero. Amin – nome di origine araba che significa “affidabile, degno di fede” – non è tanto un personaggio quanto una presenza: può essere una guida, un alter ego, un testimone o un destinatario. È l’interlocutore a cui il poeta si rivolge, e la sua funzione è quella di generare un dialogo che non spiega, ma accende domande. L’idea del colloquio diventa così il cuore del libro: non un monologo lirico, ma un andare e tornare tra io e tu, tra coscienza e contro-coscienza, tra chiamata e risposta. Infatti è Amin stesso a parlare, alla fine della prima sezione, in parla Amin

Io sono Amin,
colui che restò nel noncanto.
La
pietraluna che stringe 
intime alleanze con il temporale.
Sono la vita sognata,
la spada rivolta alle piogge.
Baratri e gemme,
rovesci, sterpi,
acqua di sperma creatore.
Io sono Amin
e non ho mai conosciuto l'amore.
Rivelo la sintassi del crollo:
un urlo angelicato, non si muore.
Vita sempre sognata, mai vita.

Ibello scrive con una lingua alta ma non ridondante, che privilegia la nettezza e la verticalità del dettato. Il suo immaginario mescola il sacro e il profano, la parola liturgica e l’innesto colloquiale, persino con sprazzi d’inglese e spagnolo che spezzano la continuità e riportano il lettore nel frastuono della contemporaneità. Le immagini sono essenziali e archetipiche – vento, rogo, sale, cenere – e si dispongono in una sintassi che alterna ampi respiri a cesure improvvise, come se la poesia fosse un’onda che si infrange e si ritrae. Così in 25 novembre:

1.

Qui, dove adesso siamo,
nella sorgente dell'ultimo vedere,
ogni cosa è già vissuta:
l'estate che tormenta i gerani,
l'uomo che grida nel vento.
L'ariosa calma che segue l'amore.
Diego Maradona che dice:
yo sé la culpa que tengo.


2.

Yo sé la culpa che tengo.
Yo-soy-la-culpa, Emir.
Io, stella cancerosa
io, smusicato: il mai redento.
Sia aperto
il segreto convegno
                [delle vampe,
il battesimo incendio.
La vita implume.
Nasca pure, se deve,
il bambino lordato di cenere.


3.

Nasce incendio e muore sole
questa gioia che torna a intiepidire il vento.
Torneremo a dire grazie per il buio,
per l'alba dei rasoi.
Per ogni fuoriclasse spento
che accarezza la palla con la suola,
che infila l'incrocio dei pali, e non esulta.
Come una prostituta annoiata da dio
anche tu volevi fare alta la vita.
Cercavi il tuono nelle serrande,
dribblavi fiori, altalene,
elefanti di vetro. Dicevi:
"Sono felice perché non sono qui".


4.

C'era l'immagine di Maradona
sopra un muro di cemento
ma l'arco degli occhi era sporcato
da brandelli di manifesti mortuari:
oscillavano nel vento
mentre un odore di marijuana
si diramava oltre le case popolari.
Maradona era solo contro gli inglesi,
l'anatema del numero dieci.
Con una mano cercava la palla
con l'altra stringeva nel pugno
una radice di gramigna
che sporgeva da una crepa,
fino a quando una donna
decise di estirparla
con un gesto solo, risoluto, che diceva:
"L'amore perduto non ritorna".




Il sacro, in queste pagine, non è un rifugio ma un campo di prova. L’invito a essere consapevoli di Dio suona più come un avvertimento che come una consolazione, e ogni possibile rivelazione è accompagnata dal sospetto, dall’attrito, dalla consapevolezza che la luce dell’avvenire possa già essere cariata. È una spiritualità senza dogma, che si misura con il rischio della parola e con la necessità di restare fedeli a una ricerca che non promette risposte. 

È un assillo senza pace di aurora
la tua voce che mi chiama:
come ti spieghi
il pulsare di una piaga?
È ancora notte.
Non c'è tregua sotto gli olmi,
solo il profumo del mio seme
quand'ero ragazzino.

Rispetto alla versione originaria, premiata nel 2018 come plaquette, questa edizione sviluppa un disegno più continuo. La scelta di abbandonare il frammento a favore di una costruzione più organica porta con sé una voce più autorevole, senza tuttavia perdere del tutto quella vibrazione di incompletezza che appartiene alle opere prime. La tensione visionaria è costante, sorretta da un’architettura poetica che mira a un’origine fuori dal tempo ma non si stacca mai del tutto dal presente.

Venga l'urlo luciferino, korai sfigurate dal sonno. Venga il primo giorno/ senza luce, una parola che dica mai più, un salmodiare di fuochi estinti e fiori divelti sul davanzale. Venga il primo giorno senza luna, i feudi della pornografia: il solocorpo di mamma da vangare.

È proprio in questo equilibrio tra arcaico e contemporaneo che Dialoghi con Amin trova la sua forza. Ibello riesce a far dialogare la memoria dei poemi antichi con la nostra lingua inquieta di oggi, consegnando un libro che ha l’autorevolezza di un testo sacro e, insieme, la fragilità di una confessione. È una poesia che non si accontenta di raccontare, ma interroga: chiama il lettore a rispondere, come se ognuno di noi avesse un proprio Amin con cui fare i conti.





Comments

Popular posts from this blog