“Ora
questo Sud è mio; come le mie viscere; io l’ho inventato”
(lettera
di Vittorio Bodini a Oreste Macrì, Lecce, 1° febbraio 1950)
Tutte
le poesie
di Vittorio Bodini a cura di Oreste Macrì, pubblicato
originariamente nella collana Lo Specchio di Mondadori nel 1972 e
successivamente nel 2010 come unica edizione completa dell’autore
per Besamuci,
rappresenta per il collettivo un esempio di scrittura vicina alla
terra di appartenenza (il Sud Italia), con uno slancio sia critico
che nostalgico.
La raccolta è stata scelta da Anna Rita e si compone di 312 poesie edite e inedite, più alcuni frammenti di Collage ritrovati su 61 foglietti. L’opera si articola in tre parti: 1) Raccolte edite in vita, poesie tratte da La luna dei Borboni e altre poesie e Metamor, scritte dal 1945 al 1966; 2) Raccolte inedite in vita, suddivise in maniera organica in quattro lotti: Inediti 1954-1961, Zeta 1962-1969, La civiltà industriale o Poesie ovali 1966-1970, Collage 1969-1970); 3) Appunti di poesie, residue e sparse, in tre sezioni omonime. Interessante, la chiusa fatta nell’Appendice I con 11 Poesie Futuriste.
La scrittura di Bodini è strettamente legata all’intrinseco rapporto che esiste tra il partire e il tornare, in quei luoghi che un tempo erano familiari e che si trovano a rivivere (pregni di luce) in uno sguardo nuovo, quest’ultimo contaminato da esperienze di vita al di fuori del territorio natale.
L’autore nasce a Bari nel 1914 e fin da subito si trasferisce a Lecce, ove diciottenne, diventa capogruppo dei futuristi leccesi. Si laurea in filosofia a Firenze e poi parte per la Spagna, come lettore d’italiano e antiquario. Dopo tre anni, rientra a Lecce, ma continua a rimanere connesso a Bari, avendo la cattedra di letteratura spagnola all’università. Nell’ultima parte della sua vita, si trasferisce a Roma, dove muore nel 1970.
La sua poetica è strettamente legata al Sud, alla terra del Salento che lui stesso sentiva di poter riscrivere a modo suo, fantasticamente – un rapporto idilliaco costante, tra amore e insofferenza, culminato nella poesia come tentativo di personificazione di una condizione esistenziale (casuale come un tiro a dadi) del nascere nel Meridione. Essere nati a Sud significa confrontarsi con le ombre di una terra magnifica e ostile, con paesaggi primordiali che incendiano le anime scalpitanti: chiediamo tenerezza, chiediamo giustizia.
Tu
non conosci il Sud, le case di calce
dalla faccia d’un dado.
***
Quando
tornai al mio paese nel Sud,
dove
ogni cosa, ogni attimo del passato
somiglia
a quei terribili polsi di morti
che
ogni volta rispuntano dalle zolle
e
stancano le pale eternamente implacati,
compresi
allora perché ti dovevo perdere:
qui
s’era fatto il mio volto, lontano da te,
e
il tuo, in altri paesi a cui non posso pensare.
Quando
tornai al mio paese del Sud,
io
mi sentivo morire.
***
Qui
non vorrei morire dove vivere
così sgradito da doverti amare;
lento piano dove la luce pare
di carne cruda
e il nespolo va e viene fra noi e l’inverno.
Pigro
la tazza di caffè, le parole perdute,
vivo ormai nelle cose che i miei occhi guardano:
divento ulivo e ruota d’un lento carro,
siepe di fichi d’India, terra amara
dove cresce il tabacco.
Ma tu, mortale e torbida, così mia,
così sola,
dici che non è vero, che non è tutto.
Triste invidia di vivere,
in tutta questa pianura
non c’è un ramo su cui tu voglia posarti.
***
Battono
colpi a casi addormentate.
e l’azzurro che nasce, a corolle, negli anditi.
Noi
parliamo del logos e dell’amore,
i taccuini dei letti dov’è già fatta ogni somma,
e i pesci d’oro che evaderanno dai nostri petti nel sonno,
nuotando per le tenebre della stanza
e pronunziando le oscure frasi dei sogni.
Ma tu, luna, le incognite finestre
illumini del Nord,
mentre noi qui parliamo,
nel fondo di quest’esule provincia
ove di te solo la nuca appare.
***
Morta in Puglia
Quando
seppe l’aumento del prezzo dei pomodori
Imparò a brontolare
e a mettere le mani nella liscivia bollente.
Nella casa imbiancata da poco tempo
ardeva su una parete
un serto di pepe diavolo per i maschi.
All’alba un muratore uscì tossendo
e chiuse l’uscio di casa,
le foglie di limone dentro il cuscino
ricordarono un sole di giallo d’ossa.
Morta,
non morire di più.
Lucida le maniglie e annaffia i garofani.
Dimentica
che i vetri delle finestre
che le macchie sui vestiti scuri
si tolgono con la posa del caffe.
Non è più la tua mano che destina ad altro uso
la cera ancora molle dei candelieri
o che scalda sul gas la cioccolata dei morti.
Risorgi nell’Inutile, morta in Puglia:
nei coralli del mare o negli urli del vento
nella tua terra d’ostriche e di lupi mannari.
Il trasferimento in Spagna lo conduce a fare esperienza dell’Europa ma anche di un sud diverso, scoprendo similitudini folkloristiche che gli permettono di riconsiderare la terra natia. La pietra (leccese) e la personificazione di alcuni elementi del paesaggio salentino, divengono modi di catalizzare il senso di vuoto provato al rientro, e il barocco immutato, si presenta come esaltazione di un’estetica corrosa, di uno sciovinismo alienante. Come si legge in una strofa di Omaggio a Góngora, in cui il poeta apertamente dichiara:
[…]
Venuto
qui non oso domandare
Cordova è una dolce tempesta
di bianco verde e nero e in quell’accordo
di calce e limoni e di freschi cancelli
trovo il mio Sud ma con più aperta coscienza
con più aperta tristezza e valore.
***
Finibusterrae
Vorrei
essere fieno sul finire del giorno
fra campi di tabacco e ulivi, su un carro
che arriva in un paese dopo il tramonto
in un’aria di gomma scura.
Angeli pterodattili sorvolano
quello stretto cunicolo in cui il giorno
vacilla: è un’ora
che è peggio solo morire, e sola luce
è accesa in piazza una sala da barba.
Il fanale d’un camion,
scopa d’apocalisse, va scoprendo
crolli di donne in fuga
nel vano delle porte e tornerà
il bianco per un attimo a brillare
della calce, regina arsa e concreta
di questi umili luoghi dove termini,
meschinamente, Italia, in poca rissa
d’acque ai piedi d’un faro.
È qui che i salentini dopo morti
fanno ritorno
col cappello in testa.
L’evoluzione della poesia di Bodini ci mostra la sua capacità intrinseca di riuscire a collimare il paesaggio con riflessioni esistenzialiste – le immagini richiamo colori e luoghi altri, dove porsi domande che ci avvicinano alla ricerca del sé, quasi in modo sinestetico. Metafore e meta-immagini incontrano tradizioni e modus vivendi tipici dei paesi meridionali.
La verde noia uccide
I
muschi, il capelvenere,
la polla che in silenzio
muove la bocca tremula
come vana figura
che s’allontana in sogno
ogni privata vicenda
hanno disperso. Chiedersi
«a che punto sono con me stesso?»,
non ha senso.
La verde noia uccide
gli idolatrici cuori.
Scivola il sandalo
dal piede,
ghermisce la giacca
un rovo.
Eccomi divenuto
bosco. Sarò
solo un filo fra i tanti
di questo verde arazzo dietro il quale
una pastora invisibile
implora un’invisibile capra.
***
Conosco appena le mani
Conosco
appena le mani,
Conosco il giorno e la notte
e i terrori del vento.
Ma gli anni? Dove son gli anni,
e tutti i libri che ho letto?
I volti amati si sfrondano
delle loro vicende,
non restano che i nomi.
Tutto nella memoria
cade a pezzi, sprofonda
senza rumore
nelle botole dei morti.
Ah, dove sono le acute presenze
del passato, le sue calde forme,
la cera su cui incidevano
i miei sentimenti?
Dove si nasconde il senso
delle cose che ho vissuto,
e i brividi lucenti
e i cieli dell’avventura?
***
I pomodori secchi
I
pomodori secchi
e le donne dai cuori di cicoria.
I pomodori secchi e i datteri gialli,
e le donne che colgono le olive
fra gli olivastri, con la bocca viola;
tutto è univoco e perso a furia d'esistere.
Dove hai nascosto, cielo, l'altra ipotesi?
Quale parte è la nostra?
Non saremo null'altro
che rozzi testimoni di questo esistere?
***
Io avevo una pietra
Io
avevo una pietra
e l'orizzonte un desiderio
di spaccarsi, di fendersi
in melagrane,
in bianchi muri di calce
secondo un disegno che era
il disegno della mia morte.
È
con la propria morte
la propria morte accettare
come la vuota ombra
d'un cane bianco, ritagliato
nella carta velina
che parte e torna
dai suoi viaggi nel nulla
e quelle corse, quel muso
alzato verso di noi
creano una tenerezza.
Ma
ormai
senza pietra come
come farò a sapere
dove sono, fino a che punto sono morto
o vivo
le cose da lasciare
e quelle da prendere.
È la caverna, è la caverna.
È la caverna dell'uomo
che ha i pantaloni stirati.
Ma i ginocchi celesti dell'infanzia
scorticati, gloriosamente piagati
quale vecchio pallone
incalzano, gonfiato con la pompa
da bicicletta, attenti
a prevederne ogni rimbalzo falso?
E
ancora:
La produzione poetica di Bodini qui presentata, ci conduce in un viaggio all’interno delle varie fasi – e sfaccettature – della vita di un artista le cui radici diventano spinta intuitiva dell’abitare interiore. Il bagaglio emotivo che ciascuna di queste fasi comporta, le tecniche di scrittura in evoluzione, permettono di cimentarsi in una lettura triangolare, mai sterile, conducendoci esattamente nei punti esatti della nostra personale metamorfosi.
Aprile – Ore 9 mattutine
Nel
cortile bianco
dipinge in marrone,
l’immensità dell’Occhio
adamantino dell’Universo
ha spinto arrabbiato
il suo sguardo infuocato.
Traversali
di luce e d’ombra
del rettangolo chiuso, colorato
di falso silenzio.
Nel
settore luminoso
luccicano lagrime
di lieta vanità
sentendosi guardati
dal sole.
Ma
una piantina
malati d’ombra
protende pel muro
piagato
i suoi steli
raminghi, umiliati
in forma d’ardente preghiera,
per raggiungere l’orlo
di quell’aereo laghetto, lassù,
di oro celeste.
Comments
Post a Comment