Murale di Mahmud Darwish, edito in lingua italiana da Epoché nel 2005, rappresenta per il collettivo un vero e proprio dono. Arrivato a Giulia, che l’ha scelto per noi, grazie alle mani preziose di un’anima saggia, offre al lettore la possibilità di abbandonasi totalmente alla parola poetica e fare esperienza tangibile della Verità; perfino oggi dove sembra essere “la grande assente”.


L’ombra nitida dei sinonimi,

la precisione del significato.


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Tu sei la mia verità, io il tuo interrogativo.

Abbiamo ereditato solo i nostri nomi.

Tu sei il mio giardino, io la tua ombra

al crocevia del canto epico … 


Fin dalle prime pagine il poeta concede al lettore il privilegio di entrare nel suo sguardo in un delicato momento di passaggio, sospeso tra la vita e la morte. 

Tra la morte e la resurrezione Darwish ci guida in un viaggio che prende i connotati del sublime.


Non sogno 

di sognare. Ogni cosa è reale. 

So che abbandono me stesso…

e m’involo. Sarò ciò che diventerò

nell’ultimo firmamento.


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Nulla mi addolora sulla soglia della resurrezione, 

non il tempo né i sentimenti.

Non sento la leggerezza delle cose né il peso

dei tormenti. Non trovo a chi domandare:

dov’è, ora, il mio dove? Dov’è la città

dei morti e io, dove sono? Non c’è il nulla,

qui, nel non-qui…nel non-tempo,

e non c’è esistenza.


Come se fossi già morto prima d’ora […]


Un giorno sarò ciò che voglio.


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Basterà un solo libro per passare il tempo nel non-tempo 

o avrò bisogno di una biblioteca? E in che lingua si

conversa, laggiù? Dialetto per tutti o arabo classico?



Nel 1948, Al-Birwa, il paesino dov’ era nato, viene raso al suolo e cancellato definitivamente dalle cartine geografiche, oggi ne resta soltanto un cimitero. Darwish diventa uno dei 750.000 profughi Palestinesi costretti all’esodo dalle loro terre natali. Tornerà in Palestina, divenuta Israele, da clandestino e nella giovinezza verrà più volte incarcerato, facendo esperienza sulla propria pelle dei soprusi, della mancanza di libertà e di ogni miseria umana a cui vengono sottoposti i profughi del mondo. 

Di sé disse: “Quando ho cominciato a scrivere ero abitato dall’ossessione di dire la mia perdita, le mie sensazioni, i limiti imposti alla mia esistenza.” Di ciò troviamo traccia anche in Murale, seppur in una chiave diversa:


Ho visto paesi cingermi

con braccia mattinali:

sii degno del profumo del pane.

[…]

Verde la terra del mio poema, verde. Mi basta un solo

fiume per sussurrare alla farfalla: o sorella mia. Un solo

fiume per invogliare le antiche leggende a restare sull’ala

del falco che sostituisce le insegne e le vette lontane, dove 

gli eserciti hanno edificato per me regni dell’oblio. Nessun 

popolo è più piccolo del suo poema…


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Voglio rivolgere a me stesso i saluti del mattino

là dove mi sono lasciato ragazzo felice [non

ero un ragazzo fortunato, in quei giorni, 

ma la distanza, come abile fabbro,

crea da semplice ferro una luna]


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E io sono io, null’altro.

Sono uno degli abitanti di questa piana …

Alla festa dell’orzo visito le mie rovine

Spendenti come un tatuaggio sull’identità. 

[…]

Leggera mi è l’anima, 

appesantito dal luogo e dai ricordi il corpo.


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Del passato ho quanto basta

ma mi manca un domani …


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Brulicano i vivi e i morti nella sua argilla

come api prigioniere dell’arnia,

che scioperano contro i fiori

e chiedono al mare una via di fuga ogni volta che

l’assedio si stringe, e insegnami la poesia. 




Nel 1964 sposa, poeticamente, la causa Palestinese denunciando attraverso le sue parole la drammaticità dei soprusi a cui veniva sottoposto il suo popolo. Diverrà poeta simbolo per antonomasia di quella resistenza, venendo consacrato a tale ruolo dopo la scrittura di Carta d’identità. Vivrà tale riconoscimento come onore e croce in tutte le sue opere.


Ho vissuto come nessun poeta ha vissuto,

re e sapiente …

Sono invecchiato, tediato dalla gloria,

nulla mi manca,

è forse per questo che

quando s’accresce la mia sapienza

s’aggrava la mia ansia?

Che cos’è Gerusalemme e cosa il suo trono?

Nulla rimane nel suo stato,

c’è un tempo per nascere,

un tempo per morire,

un tempo per tacere, 

un tempo per parlare,

un tempo per la guerra,

un tempo per la pace,

e un tempo per il tempo,

nulla rimane nel suo stato …


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Nel vento non siamo più diversi,

tu sei il mio pretesto, io la tua metafora

fuori dai cortei ammaestrati come i destini.


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Ho detto al carceriere sulla riva occidentale:

            -Sei il figlio del mio vecchio carceriere?             -Sì!

            -E tuo padre dov’è?

Ha detto: Mio padre è morto da anni,

caduto in depressione per il tedio della guardia. 

Mi ha dato in eredità la sua missione e il suo mestiere,

e mi ha raccomandato

di proteggere la città dal tuo canto … 

[…]

Ho detto: Sono ancora qui?

In libertà o prigioniero senza 

saperlo?E questo mare oltre le mura è il mio mare?

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Prendi la storia, o figlio di mio padre, 

prendi la storia.. e degli istinti fa’ ciò che vuoi.

Per me la quiete. Il piccolo chicco di grano 

basterà a me e al mio nemico,

ché ancora non è giunta la mia ora. 


In questo poema, composto dopo un breve periodo di coma, Darwish mette in luce il dualismo tra vita e morte con lucidità e disarmante “semplicità”.


Ogni volta che sono diventato amico

o fratello di una spiga, ho imparato a sopravvivere 

al nulla e al suo contrario : “Sono il chicco di grano

che muore per germogliare di nuovo,

nella mia morte c’è vita …”


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Il cuore, come il ferro, arrugginisce, non si lamenta né s’intenerisce,

non impazzisce alla prima pioggia di libera tenerezza, non 

tintinna per la siccità come l’erba d’agosto. 


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Da solo esplorerò con passi incerti

la mia eternità. […]


Chi sono io, da solo? Polvere di compiuta genesi attorno

a me. [...]


Il culmine

dell’uomo

è un abisso …[…]


Polvere di compiuta genesi …

Mi spezza l’assenza come piccola giara d’acqua.


Nel 2009, José Saramago, scriveva su di lui: “Il prossimo agosto sarà passato un anno dalla morte di M. Darwish, il grande poeta palestinese. Se il nostro mondo fosse un po' più sensibile e intelligente, più attento alla grandezza quasi sublime di alcune delle vite che lo attraversano, il suo nome sarebbe oggi conosciuto e ammirato come, per esempio, lo fu in vita Pablo Neruda. ”

 

[Tutto è vano, cogli

 la vita così com’è, istante gravido della sua linfa,

distillato di sangue d’erba. Vivi per il tuo giorno, non

per il sogno. Tutto è effimero. Sta’ attento al 

domani, vivi la vita adesso, in una donna

che t’ama. Vivi per il tuo corpo, non per l’illusione. 

E aspetta

un figlio che porterà l’anima al posto tuo. 

L’eternità è rigenerazione dell’esistenza.

E tutto è vano o effimero

o effimero e vano].

[…]

La vita sulla terra è l’ombra

di ciò che non vediamo …

Vano, vanità delle vanità … vano,

tutto sulla terra è effimero.


Con una lungimiranza della quale oggi avremmo bisogno come dell’ ossigeno che respiriamo, affermava: 

“La vera pace è un dialogo tra due versioni. […] Non imponetemi la vostra e io non vi imporrò la mia. Tutti devono avere il diritto di raccontare la propria storia.”


Come il Cristo sulle acque

ho camminato nella mia visione. Ma sono sceso

dalla croce perché temo l’altezza e

non annuncio la resurrezione. Ho cambiato soltanto

ritmo per sentire più chiara la voce del cuore. [..]


Questo mare è mio

mia quest’aria umida

mia questa banchina e ciò che dei miei passi

e del mio sperma v’è sopra [..]


E’ mio ciò che era mio. [..]


Mio questo mio nome …[..]


Due metri di questa terra ora basteranno …

Per me, un metro e settantacinque centimetri …








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