Le Parti del Grido di Lorenzo Chiuchiù, pubblicato da Effigie nel 2018, è il suo terzo libro di poesia, ed è stato scelto da Sabrina. Rappresenta, per il collettivo, quella ferita che non smette di pensare.
La raccolta è un sismografo interiore che traduce ogni movimento – intellettuale, affettivo, storico – in linguaggio e vertigine. Le Parti del Grido è un libro che ascolta mentre viene letto, un organismo attraversato da tensioni che non vogliono sciogliersi, ma mostrarsi, nudi e in atto. 
Chiuchiù muove la scrittura come un saggio dissonante: attraversa il pensiero e lo mette in corto circuito con la carne della parola. La poesia non è qui un luogo di conciliazione, né di consolazione. È un luogo critico, spietato, filosofico, che costringe il lettore a ripensarsi nella lacerazione.

Verso lo stile distruzione
fogli che ricoprono la terra -
qualcuno li ha scritti per te
e per te li ha mandati fuori
come soldati essenziali,
e se è stato sarà per le rivolte
e le interferenze: il salto
non ritrovare terra.

Non c’è io lirico che si dichiari tale: c’è una voce che scarta, che si oppone all’identificazione, che non vuole dire sé, ma piuttosto incidere nella superficie del mondo. Lo fa per sottrazione, per frattura, lasciando emergere il non-detto come ciò che vibra davvero. L’autore pare consapevole che ogni frase pronunciata è già una distanza, una perdita, un tradimento. Eppure, insiste nel dirsi – o meglio, nel lasciarsi dire da ciò che attraversa.

L’estremo ti trova senza motivo
sostanza misericordia non trattabile
e vene infuse nel marmo senza
le molte avvisaglie del passo falso.
Dicevi grazie all’unica volta,
perdutamente, ma ricorsive come
le vite nel passo ancora falso
le nuove metriche erano
il corale che cantavi da solo
per tentarti, per tradirti, per
sottrarti: ma tu credevi, avevi te stesso
colpa e notturno cardiaco.

Il grido di Chiuchiù è un grido spaccato, stratificato, che si rifiuta di darsi in un solo tono, in una sola voce. È un grido plurale, che si scompone in parti, come un corpo smembrato ma ancora vivo, ancora capace di domanda. Ogni verso sembra provenire da un fronte diverso: quello dell’illusione, della rovina, dell’infanzia, dell’ideologia, della carne. E in ciascuno di questi territori, la parola si muove come un relitto lucente, un frammento di qualcosa che ha perso l’unità ma non la potenza.

Nella colonna delle vite improvvise
le attraversative cadono
a piombo, come le asce degli esausti
o come queste pietre nel vuoto.
«Le stelle puoi vederle solo dal tetto,
nell’estate sconfinata che apre la pianura
dove tutti i falò sono echi: anche le stelle
crepitano e vogliono il caos e il vento.
Abbiamo debellato gli idioti che piangono -
davvero stai piangendo? - abbiamo finito
per incontrarci nudi - davvero hai trovato
la tua infanzia intatta?»


L’elemento filosofico non sovrasta mai la tensione emotiva e formale: la poesia resta corpo, anche quando si addentra nei meandri più oscuri del pensiero. Corpo che si spezza, si contorce, si nega, ma che continua a vibrare in ogni singola cesura. Il grido del titolo non è il suono pieno dell’urlo, ma la sua anatomia: le sue parti, le sue implicazioni, le sue zone di silenzio.

… e dominio il tuo requiem
ma nessuna mistica per questa terra
che governa le ombre
e infierisce sugli elementi
consegnando la genesi. L’ossigeno è puro
e alla fine sei libero da te stesso
come le creature che arrivano intere
e portano la pagina crudele.

Esiste un gesto che disunisce
ma dalla porta non vedi che te stesso:
e ora entra, sfigurati.

E poi c’è la lingua: tesa, ellittica, scarnificata. Una lingua che non vuole mai compiacere. Ogni parola sembra scelta per la sua capacità di resistere, di reggere il peso del vuoto che la precede e che la segue. È una poesia che esige, non rassicura. Ma che proprio per questo lascia una traccia profonda: perché ci chiede di esserci per davvero.

(...)


La sillaba scava come il bisturi
non illuderti che questa musica
ti assolva: hai il quaderno
che lentamente affonda nel petto

e forse la sillaba, la chimica
che non comprendi spartirà
la rosa dal seno
e la terra dalla verticale.

In Le parti del grido, Chiuchiù scrive contro ogni retorica, contro ogni addomesticamento. Scrive per scoprire e per ferire, in senso etimologico: incidere, aprire, lasciare un varco.

Ripeti contro di te: ti illudesti
che il sole sull’acciaio innalzasse
aste di luce e se le antiche oscillazioni
dell’unico rivale erano per te
ti illudesti che qualcuno ti chiamasse
per nome e per sempre
e allora ti sei alzato, pieno d’amore.
Eppure attraversi la strada
con la tua ombra che ti precede
e si stacca da te, indicandoti:

è adesso che ti illudesti: nel nucleo
demolito divampano
le vocali e tu ripeti contro di te
che le parti del grido sono in guerra
per averti intero.



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