Io ritornerò, con membra di ferro, con la pelle scura, con l’occhio furioso: sulla mia maschera, mi si giudicherà di una razza forte. Avrò oro: sarò ozioso e brutale. 

Una stagione all’inferno di Arthur Rimbaud (Newton Compton, 1995; SE, 2004; Newton Compton, 2007, ecc.) rappresenta per il collettivo uno dei libri-soglia. Scelto da Sabrina, questo libro è una bibbia sporca, un’opera che non consola, non guida e non spiega, ma infetta. Ci si torna come a una ferita che non si rimargina, che cambia col tempo come cambia la pelle. Una stagione all’inferno è una promessa. Un viaggio che non finisce mai di chiedere, né di scuotere. È la poesia che non cerca riscatto, né redenzione, ma che affronta la caduta. 

La poesia di Arthur Rimbaud è quella di un esiliato, un ragazzino in fuga da se stesso e da una società opprimente e ostile; è quella di un profeta, un veggente. Nella famosa lettera (in francese Lettre du Voyant) inviata dal poeta all'amico Paul Demeny il 15 maggio del 1871, scrive:

«Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente attraverso una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi. Tutte le forme d'amore, di sofferenza, di follia; egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non serbarne che la quintessenza. Ineffabile tortura in cui ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa fra tutti il grande malato, il grande criminale, il grande maledetto, – e il sommo Sapiente! – Poiché giunge all'ignoto! Avendo coltivato la sua anima, già ricca, più di ogni altro! Egli giunge all'ignoto, e anche se, sconvolto, dovesse finire per perdere l'intelligenza delle sue visioni, le avrebbe pur sempre viste!»

La sua poesia non ha paura di mostrare la disperazione, anzi la trasforma in bellezza. Non c'è nulla di romantico nel suo tormento. Eppure, è proprio in quel tormento che nasce una delle voci più potenti della letteratura. Rimbaud si racconta come un essere fuori razza, fuori tempo, fuori misura. Un corpo che si lacera, che vuole spaventare, urtare, spingere. Così ne La Vergine Folle - Lo Sposo Infernale:

Sono di razza lontana: i miei padri erano Scandinavi: si trafiggevano il costato, bevevano il proprio sangue. - Mi farò tagli in tutto il corpo, mi tatuerò, voglio diventare orrendo (...). Non mostrarmi mai gioielli, striscerei e mi contorcerei sul tappeto. La mia ricchezza, la vorrei macchiata di sangue dappertutto. Non lavorerò mai…

La sua è  una fame, una trasformazione in atto. L’identità è un campo di battaglia, il linguaggio è una rivolta. Eppure, in questa furia, c’è anche la tenerezza. La pietà rovesciata. Nello stesso testo:

A volte parla, in una sorta di tenero dialetto, della morte che porta alla disperazione, degli infelici che sicuramente esistono, dei lavori penosi, delle partenze che straziano i cuori. Nelle bettole in cui ci ubriacavamo, piangeva considerando quelli che ci stavano intorno bestiame della miseria. Rialzava gli ubriachi nelle strade nere. Aveva la pietà di una madre cattiva per i bambini piccoli. Andava in giro con la grazia di una fanciullina al catechismo. Fingeva di essere informato su tutto, commercio, arte, medicina. - Io lo seguivo, dovevo!

Due giorni prima della lettera già citata, del resto, Rimbaud scriveva al suo professore Georges Izambard:

«Voglio essere poeta, lavoro a rendermi Veggente: lei non ci capirà niente, ed io quasi non saprei spiegarle. Si tratta di arrivare all'ignoto mediante la sregolatezza di tutti i sensi. Le sofferenze sono enormi, ma bisogna essere forti, essere nati poeti, e io mi sono riconosciuto poeta. Non è colpa mia. È falso dire "Io penso" si dovrebbe dire "Mi si pensa". – Scusi il gioco di parole: IO è un altro.»




Il genio di Rimbaud è questo: riuscire ad essere completamente e intimamente mostro e fanciullo, ubriaco e mistico, visionario e criminale. Ogni frase di Una stagione all’inferno è una ferita, una possessione che ha la voce unica della divinità barbarica. E chi lo legge non resta mai fuori dal gioco, ma viene catapultato in rivelazioni, svelamenti. Come ne Le cercatrici di pidocchi:

La fronte del ragazzo, piena di rosse tormente,
Implora il bianco sciame dei sogni indistinti,
E vicino al suo letto due leggiadre sorelle
Vengono con dita tenui dalle unghie argentine.

Lo fan sedere accanto a una finestra aperta
Dove l’aria turchina bagna un folto di fiori,
E nei capelli grevi su cui piove rugiada
Muovono dita fini, tremende, allettatrici.

Egli ascolta cantare il loro trepidante
Alito, che sa di roseo lento miele vegetale,
E che a volte interrompe un sibilo, salive
Trattenute sul labbro o appetito di baci.

Ode le ciglia nere palpitare nei silenzi
Odorosi; e dita elettriche, dolci,
Fan crepitare fra le grige indolenze
Sotto l’unghie regali la morte dei pidocchi.

Ed ecco in lui salire il vino di Pigrizia,
Un sospiro d’armonica che sappia delirare;
Seguendo il ritmo calmo delle carezze, sente
Sorgere in sé e morire una voglia di pianto.

La poesia dona immagini altre. Le dita tremende diventano allettatrici, le unghie regali uccidono, l’orrore si tinge di grazia e la grazia di terrore. In Rimbaud, il sublime si annida nei dettagli umili: la bellezza non è mai pulita. Eppure, è lì. Perché la bellezza, per Rimbaud, non è un’idea né un ornamento: è un’esperienza sensuale, immediata, estatica. Nasce dal contatto puro e primitivo con il mondo ed esplode silenziosa ma in maniera viscerale. In Sensazione:

Le sere azzurre d'estate, andrò per i sentieri,
Punzecchiato dal grano, a calpestare erba fina:
Trasognato, ne sentirò la freschezza ai piedi.
Lascerò che il vento mi bagni il capo nudo.

Non parlerò, non penserò a niente:
Ma l'amore infinito mi salirà nell'anima,
E andrò lontano, molto lontano, come uno zingaro,
Nella Natura, - felice come con una donna.

Qui la bellezza è felicità semplice e assoluta: non si possiede, ma si attraversa, come una stagione, come una visione. La stessa cosa accade in Regalità, una visione breve e intensissima dell’amore come sovranità condivisa, sogno incarnato nel tempo effimero di una mattina e un pomeriggio. Qui il desiderio è festa, febbre, complicità. Troviamo immagini quasi oniriche, teatrali, eppure piene di carne, di luce. Poi cala la notte, e con essa la disillusione, ma Rimbaud ci ha già regalato un regno: un regno fragile e splendido, come ogni atto d’amore assoluto.

Un bel mattino, presso un popolo molto mite, un uomo e una donna stupendi gridavano sulla pubblica piazza. "Amici miei, voglio che lei sia regina!" "Voglio essere regina!" Lei rideva e tremava. Lui parlava agli amici di rivelazione, di prova conclusa. Si estasiavano l'uno contro l'altra. In effetti furono re tutta una mattinata in cui gli arazzi color carminio si sollevarono sulle case, e tutto il pomeriggio, quando si spinsero verso i giardini delle palme.

Rimbaud afferra l’assoluto e lo dice con la semplicità di un’epifania. Non c’è più bisogno di parola alta. Solo di immagine, solo di luce. La poesia qui non è più confessione, né visione, né abisso — è fusione. Un punto in cui l’essere si dissolve nel mondo. E non c’è niente da spiegare. Solo da restare aperti.

È ritrovata.
Che cosa? L’eternità.
È il mare mischiato
col sole.

Una stagione all’inferno è un libro che non si smette mai di leggere — perché non si finisce mai di guarire. Leggerlo è come entrare in un luogo in cui ogni parola può uccidere o risvegliare. Per il collettivo, ogni ritorno a Rimbaud è un ritorno a ciò che la poesia potrebbe ancora essere: viziosa, incantata, scandalosa, viva.

In un tempo in cui tutto tende a essere spiegato, addomesticato, venduto, Rimbaud resta irriducibile. E leggere Una stagione all’inferno è ancora oggi un atto necessario: per ricordare che la poesia, quando fa male, ci fa anche più vivi.




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