A noi basti la gioia di cantare, di Massimiliano Bardotti (Italic Pequod, 2025 – nella collana Rive) è una raccolta il cui dono, viene indicato nella prefazione di Guadalberto Bormolini: “ha al cuore della sua preziosità il modo in cui riesce a veicolare alcune delle idee più rivoluzionarie per l’epoca in cui viviamo.”

Eleonora, che ha scelto di recensire questo libro per il Collettivo Sincronie e qui ne scrive, è parzialmente d’accordo con questo assunto: non sono le idee ad essere rivoluzionarie – sono le idee più antiche del mondo e dell’uomo che lo abita – ma è la voce eccezionalmente cristallina del poeta che le canta a renderle rivoluzionarie; facendosi megafono e portavoce il poeta ricorda a tutti noi cosa importa davvero.


La raccolta di Massimiliano Bardotti è un piccolo scrigno diviso in dodici sezioni, in cui si alternano poesie e prose poetiche in un percorso fluido e lucido. Già dall’apertura di ogni sezione il poeta ci dice quanto amore c’è nell’abitare il mondo della poesia regalandoci citazioni che gli sono care, passando da David Maria Turoldo a Robert Frost, da Emily Dickinson a Franco Battiato, da Margherita Guidacci ai Salmi, e questo dono iniziale è già esso stesso atto d’amore e invito: andate a leggere ciò che mi è caro, vi regalo il mio filo rosso, percorrete la mia strada e poi perdetevi, leggete ancora, cercate quel verso che possa illuminare i giorni difficili, portare conforto nelle notti insonni.


“Se nella fioritura del mandorlo, del ciliegio, non intuiamo la presenza di un amore antico, di una forza segreta che matura negli occhi di chi osserva…

Se non sentiamo il cuore fiorire insieme ad ogni fiore, se non sbocciamo, anche noi, ogni primavera, allora guerre, pandemie, catastrofi, sono gli ultimi dei nostri problemi, perché nessuna morte mai potrà davvero toccarci: non può morire chi non è mai nato.

 

E non può fiorire chi non viene sotterrato.”

 

In questo percorso, il poeta non ci racconta nulla di nuovo, si pone umile e tra gli ultimi di fronte a tutte le paure, i dubbi, gli interrogativi che ogni essere sensibile e senziente ha almeno una volta incontrato lungo il suo cammino. Chi siamo, cosa accadrà quando non ci saremo più, i nostri errori saranno emendati, qual è l’essenza del silenzio, che significato ha questa realtà che viviamo ogni giorno nelle sue sfaccettature ricorrenti o banali.


“Mi hai dato un bacio

e ho sentito del bacio la fine

e come ogni bacio è la fine di qualcosa.

 

Mi hai detto l’amore 

e ne ho avuto nostalgia.

 

Hai detto: domani andiamo nel bosco,

ho bisogno di respirare

di guardare le cortecce

come sanno resistere.

E io ho dubitato,

perché non lo riesco a vedere,

domani.

 

Ora sei qui, 

e la nostra gattina fa le fusa.

Lei è felice di questo poco che c’è,

è felice del bene che le vogliamo.

Non la carezziamo neanche ma lei fa le fusa.

Io credo si debba imparare da lei

amore mio, che dentro la fine del mondo

si gode l’essere amata

e non fa progetti.

Vuole mangiare quando ha fame

e dormire in mezzo a noi.

E vuole l’amore e fa le fusa

senza che nessuno la tocchi, 

perché la felicità è qualcosa

che ha deciso di praticare.

 

Siamo fortunati

ad avere maestri tanto ostinati.”

 

Quello che è disarmante, a prescindere dal credo, età, razza, estrazione sociale e culturale, provenienza geografica di chi legge quest’opera, è il canto puro di questa poesia (perché sì, è poesia tutta anche se non va a capo, anche se è una lunga collana di perle-pensieri che si susseguono tra le pagine), che non ha bisogno di abbellimenti, che è composta sapientemente con un linguaggio semplice, che parla a tutti, che non si nasconde dietro a dei trucchetti. Massimiliano Bardotti ha una grande cura nella scelta della parola; è un maestro della parola poetica, quella che può nascere solo dal silenzio e di silenzio si nutre e che ha un peso specifico, una sua necessità ineludibile.


La poesia ha una sua grazia antica, non è mai nostalgia o stucchevole sospiro; è anche impegno civile e condiviso a portare la sua luce e la sua verità al proprio prossimo, senza indottrinare e senza posizionarsi su un piedistallo. Il poeta ci prende per mano, e ci chiede di fare un piccolo sforzo, di guardare un po’ più a fondo dove passeremmo avanti con un’occhiata distratta, ci chiede di rallentare il passo, di ascoltare la vibrazione della nostra anima che va in sincrono con il trascorrere delle stagioni e delle vite che ci circondano, ci chiede di sentire nel palmo della nostra mano il peso di ciò che è apparentemente nulla.


Questi testi sembrano tanto rivoluzionari e nuovi perché ci chiedono, con forza e dolcezza, di restare umani e di aderire senza indugio alla nostra umanità. 


“Così come l’allodola non si chiede il perché dell’alba, ma per sua natura l’annuncia; così come i fili d’erba non si chiedono il perché della rugiada, ma ne portano il peso; così come l’ape resta fedele alla vocazione del miele, senza perché; così la donna e l’uomo sulla terra, sono chiamati a vivere.”


Di un libro come questo, nei tempi spaventosi e preoccupanti – a dir poco – in cui viviamo, c’è un bisogno assoluto. Di tenerlo nella borsa, sul comodino, in tasca – sempre - e da aprire a caso e leggere ogni qualvolta abbiamo bisogno di ricordarci della nostra finitudine e piccolezza, ma anche per ricordarci della bellezza della nostra umanità. 







Comments

Popular posts from this blog