Si dice che siano i libri a trovare noi e non il contrario.
È sicuramente questo il caso di A beneficio degli assenti di Stefano Simoncelli, edizione peQuod 2020, scelto da Giulia per la rubrica letteraria di questa settimana.
Il collettivo ha avuto il piacere di conoscere l’autore al mare, tra le barche del suo canale e questa appena trascorsa, è stata la prima estate in cui il mondo non ha goduto della sua penna.
In un tempo calmo, decisamente non sospetto, intriso di salsedine e poesia, è avvenuto il mio incontro con il libro. Sono state le rondini in copertina ad attrarmi, su un cielo insolitamente rosso.
Tre piccole rondini: libere, determinate, evocative, magnetiche, esattamente come le parole che custodivano. Di Simoncelli mi è rimasta conficcata nella pelle la sua capacità di vivere, abitare e descrivere il dolore: senza maschere, senza riparo, senza eguali.
Le rondini erano il mio popolo
in festa, disorientato, vagante
che raccoglieva con il becco
aghi di pino, fili di paglia
e bambagia per costruire il nido
sotto a grondaie, cornicioni e travi
che avrebbero lasciato per l’Africa.
Dov’è quel terrazzo sopra i tetti
da cui le guardavo partire
invidiandole? Dove sono io?
La strada là davanti è oscura
e sembra la stessa che ho sognato
la notte di dicembre che morivo
forse per amore o per un ictus.
Mi sentivo benissimo e volavo
con le rondini, tantissime rondini
migrando verso non so quale cielo,
ma il viaggio è stato per il momento sospeso
e mi hanno riaccompagnato qui
riconsegnandomi per sbaglio
o per miracolo a una vita
di abbagli e disinganni
dei quali mi ricordo poco
e, nei giorni fortunati, niente.
Le otto sezioni che compongono il libro sono tutte ugualmente sospese fra vita e morte, appartenenza o estraniazione, tra libertà di godere dell’oblio e la costrizione di un’esperienza meccanica, fuori da ogni nostro controllo. L’esperienza del coma, ad esempio, Simoncelli la racconta con minuzia di particolari, offrendoci il privilegio di provare a capire qualcosa che non tutti siamo chiamati a vivere.
E lo fa usando immagini familiari: quando parla di una pagina vuota tutta da riscrivere o della sensazione di abitare una vita che ci è estranea pur essendo la nostra. Quando parla dei sibili, delle voci, delle percezioni poco chiare ma pur presenti nell'altra parte.
L’autore si interroga dunque sullo spazio del nulla, quello spazio che abita in noi ma del quale non ci accorgiamo fino a quando la vita non si rompe e dalla crepa ci impone di guardare.
Pochi sono quelli che da quel nulla hanno fatto ritorno, rare sono le testimonianze del viaggio.
La poesia di Simoncelli brilla in questo caso di una luce atavica; in bilico tra nostalgia e speranza, tra resa e miracolo.
Dove sono? Questa la domanda
che scrivo sulle pagine bianche
di un quaderno a quadretti
che ho portato da casa.
Davanti c’è solo deserto.
Sembra che tutto sia stato tolto
per essere posto come un ex voto
su questo sconfinato altare di niente.
*
Qui, in prossimità del nulla,
la ricezione è ridotta al minimo.
Arrivano a tratti convulsi frammenti
di notizie, strascicate interferenze e sibili.
*
I giorni, se questi sono giorni,
si ripetono come copiati
da una carta carbone
da cui rimane un alone d’inchiostro,
un’ombra azzurrastra o sbavatura chimica
ai margini di questa interminabile pagina bianca.
A beneficio degli assenti è un libro intenso, nostalgico, a tratti malinconico ma altrettanto luminoso perché la morte, che l’autore tocca con mano, diventa rinascita, miracolo. Ed è allora che si manifesta il talento, il dono inestimabile di trasformare in parole poetiche un'esperienza terrena e mistica, a testimonianza di una continua presenza, anche nell’assenza.
L’autore sembra dirci, infatti, che quando si accede all’inverosimile tutto diventa possibile.
Sono stato via da me stesso
non so per quanto tempo,
ricoverato, operato,
dato per morto e resuscitato
quando pensavano al mio funerale
e se cremarmi o conficcarmi nella terra.
“Miracolato” sussurravano le infermiere
quando venivano all’alba a misurarmi
la glicemia e la pressione arteriosa.
Conservo il pigiama di fustagno
che era stato di mio padre,
le pantofole di stoffa
troppo larghe,
sdrucite e goffe,
lo strazio della flebo
e le visite dello sconosciuto
che aveva le mie stesse braccia
e le dimenava nell’aria come uno
che stesse annegando, si agitava
mettendo sottosopra l’armadio,
i cassetti del comodino, il letto
e spariva verso mezzanotte
quando, sedato e sfinito,
mi addormentavo.
*
Le mie forze erano la passione
e la salute con cui mi perdevo
a testa alta, piano o di corsa
nel punto esatto in cui la vita
diventa piazza e si fa gente,
ma sono stato costretto
a molte, inevitabili modifiche
e forse a un salto nella fede
come diceva Kierkegaard.
L’indicibile, l’inimmaginabile si lega indissolubilmente all’autentico. Avventurandoci tra le sue pagine abbiamo sempre di più la sensazione che sia il mistero della vita, che si intreccia con l’amore, a salvare; che sia quello il gancio che ci permette di tornare, di restare o di lottare. Qualcuno che ci viene a prendere, che crede si possa tornare. Qualcuno che continua a sperare e non ci lascia andare.
Dillo un’altra volta, un’altra e un’altra,
ripeti che mi vuoi bene e fammelo sentire,
anche se dove mi trovo non sento più niente.
Passami il tuo respiro giovane, appassionato
che mi trattenga in vita ancora un momento
per confidarti sottovoce l’ultimo pensiero:
prima o poi qualcuno di noi deve partire
ed è impossibile sapere quanto tempo
ci sarà dato da trascorrere insieme
in questo splendido e terribile passaggio
terreno. Nessuno, tanto meno noi due,
può saperlo, aggrappati come siamo
alle ombre nere delle nuvole sulle colline,
pericolosamente abbracciati e in bilico
su un sogno, un risveglio o un baleno,
ma ti aspetterò e sarà per sempre.
E poi? La tappa in cui tutti siamo chiamati a sostare, imprescindibile da qualsiasi specchio: riconoscersi. Andare e venire da ciò che siamo: distanti da ciò che siamo stati, incapaci di immaginare ciò che saremo destinati ad essere.
Li ho strappati a malattie e a ossessioni
i frammenti di immagini che conservo.
Ogni giorno li dispongo là davanti
li pulisco, li guardo, mi confondo
e mi chiedo: “chi sarà mai quello lì,
sì, quello con la maglia numero sette
sporca di gesso, margherite e fango
o il trafelato che sembra fuggire
da una balera o un agguato?
Sono davvero io o un altro?
Forse interpreto la parte
di un’ombra cinese
[…]
A beneficio degli assenti è una finestra privilegiata su un tempo e uno spazio riservato a pochi e sembra offrire, al lettore, una possibile risposta ad interrogativi nascosti nella parte più recondita dell’umano: dove finiamo quando ci addormentiamo in un sonno più profondo di quello abituale? Di che cosa abbiamo coscienza? A cosa ci aggrappiamo? Che cosa ci permette di tornare? Sarà per questo che per me, i suoi versi, hanno il sapore di un giorno di primavera; perché, come tutte le cose indispensabili, ti capitano per caso, tra le mani, nell'esatto momento in cui ne avevi veramente bisogno.
A te, Stefano, buon volo.
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